Ricerche e culture. L’ineludibile di domani sarà l’inter-culturazione contestualizzata Rev. Adrien NTABONA
Introduzione
Il Centro di Ricerche per l’Inculturazione e lo Sviluppo (CRID) ha inteso e sempre intende per inculturazione il fatto che la fede penetra, feconda e trasforma una cultura, al punto che la fede diventa cultura e la cultura diventa fede.
Questo impegno a lungo termine è iniziato nel 1992 con il tema della famiglia. Tuttavia, il contesto della sub-regione non ha consentito di continuare questa fondamentale ricerca. Il CRID ha dovuto dare priorità alla lotta per la vita e per la sopravvivenza, facendo ricerche sulla cultura della pace. E, a proposito della inculturazione, un’altra dimensione ha potuto venire alla luce, a questo riguardo: l’inculturazione orizzontale riferita alla fede e che deve precedere quella verticale.
Sulla base di un’esperienza lungamente maturata, per inculturazione orizzontale il CRID è arrivato ad intendere il fatto che valori estranei ad una cultura, la penetrano, la fecondano e la trasformano in modo armonioso e dinamizzante, al punto che si produce un connubio fra tradizione e modernità, unitamente ad un umanesimo di sintesi che consente di costruire il nuovo sul tronco antico. Questa precisione concettuale è emersa dalle ricerche fatte sull’istituzione dei “Bashingantahe”, cioè i “Saggi” al fine di proporre al Paese dei riferimenti viventi per la cultura della Pace.
E oggi che la ricerca continua, questa visione ha fatto emergere un terzo concetto: quello della “inter-culturazione”, vale a dire il fatto che valori locali e valori omologati dalla comunità internazionale entrano in un’operazione di amalgama contestualizzato, che permette una penetrazione, una fecondazione e una trasformazione reciproca; in breve sono come rocce che emergono dall’acqua e alle quali altri attori possono appoggiarsi per non cadere e affogare, a seguito delle vertigini provocate da una mondializzazione avida, aggressiva, invadente e vorace, almeno in certi luoghi e nelle zone periferiche.
Nel presente articolo si tratterà di quest’ultima prospettiva. Porremo più profondamente il problema della globalizzazione in generale e quello della confusione concettuale in particolare. Affronteremo poi le forze centrifughe che tutto questo genera, per mettere negli spiriti l’inter-culturazione e la ri-umanizzazione che ne consegue come l’ineludibile di domani.
I. Posizione del problema
Di fronte alle esigenze della mondializzazione, è indispensabile un lavoro globale di rinnovamento. A destra e a sinistra nel mondo, gli spiriti non sono ancora all’altezza delle esigenze di sviluppo durevole e aperto alla mondializzazione. Questo problema non riguarda soltanto le masse popolari, ma anche e sotto ogni aspetto, i leaders ai diversi livelli. Su scala mondiale noi stiamo diventando sempre più come gli animali malati di peste della favola. Non tutti morirono, dice La Fontaine, tutti però furono colpiti dalla peste.
Parecchi leaders per esempio, visti i prerequisiti posti dalla comunità internazionale, giocano alla democrazia, mentre hanno un “programma politico” nascosto: quello di un Potere per l’avere o per la sistemazione di sé e dei “suoi”, addomesticando la popolazione e accarezzando a questo scopo corde spesso riduttive. Il problema dell’attaccamento al Potere, come peso psico-fisico, e che ricade ineluttabilmente sulle masse, è veramente uno dei maggiori ostacoli ad una sana mondializzazione, poiché causa la distruzione degli spiriti ed una grande confusione concettuale che imperversa ovunque…
II. La questione della confusione concettuale
Questo addomesticamento delle coscienze passa per parecchi canali, tra cui gli integrismi di ogni calibro, a volte con forme di fanatismo manicheo che mette tutto ciò che vi è di buono dalla parte del “noi”, creato ad arte; e tutto ciò che vi è di esecrabile dalla parte del “voi”, creato ancor più ad arte. Nessun paese oggi è al riparo da questa tentazione, favorita dal contesto del terrorismo mondiale.
Da qui alla destrutturazione e alla distruzione delle vite umane e dei beni situati dalla parte del “voi”, non c’è che un passo, che può arrivare fino al genocidio come in Rwanda e in Burundi, dove l’etnocentrismo totalitario si è sviluppato, e ancora si sviluppa, sullo sfondo di un’apparente aspirazione alla democrazia. Un flagello simile si può ritrovare altrove sotto altre forme, se non si sta attenti. Gli esempi riempiono gli occhi, sempre in una confusione concettuale delle più raffinate.
Conflitti di gruppi ce ne sono ovunque nel mondo. Quando non sono aperti, sono almeno latenti. Se i massacri non esplodono, è perché il tal gruppo o il talaltro non ha ancora deciso di sterminare questo gruppo o l’altro. Altrimenti si avrebbero dei Rwanda e dei Burundi ovunque in Africa e forse anche altrove nel mondo. Bisogna dunque prevenire questo dovunque, ad ogni costo. Altrimenti la comunicazione “azimutale” su scala planetaria, può confondere maggiormente i paesaggi politici, imbrogliare gli spiriti e – dato che la distanza non conta più – creare dedali nei percorsi per paralizzare i sistemi e far sterminare delle vite, in qualsiasi luogo.
Le diaspore che nascono a causa della fuoruscita degli integrismi possono anche creare, a loro volta, integrismi di ritorno e produrre senza fine guerre di natura identitaria. Nell’antropologia filosofica burundese, affinché un uomo possa agire, deve fare unità nella sua vita interiore. Bisogna che l’intelligenza e l’affettività sensibile possano vibrare all’unisono per muovere la volontà.
Ciò comporta anzitutto un corollario. La mondializazione dovrebbe mettere al primo posto il programma della formazione ai valori, posta alla base della civilizzazione dei diritti dell’uomo: il senso della dignità umana, la democrazia, la promozione delle libertà, la tolleranza, la non-violenza attiva, l’auto-promozione, l’autonomia dei mezzi naturali di vita.
Questo programma deve includere gli studi e le pubblicazioni sulle ricchezze culturali dei popoli, in materia di ricerca di armonia, di prevenzione pacifica dei conflitti; senza dimenticare un’opera di guarigione degli spiriti e della memoria, là dove le devastazioni si sono già verificate. È proprio per reazione al marasma risultante dalla Seconda Guerra Mondiale, che la filosofia dei Diritti dell’Uomo, sul piano formale, è stata messa a punto su scala mondiale. Oggi un passo analogo sembrerebbe imporsi alla fine della Guerra Fredda. In ogni caso, nei Paesi emergenti la confusione concettuale sembra risultare anche da un passaggio mentale – male assimilato – dal mondo bipolare al mondo monopolare. Purtroppo questo passaggio ha sviluppato soprattutto un clientelismo rampante nei confronti delle Grandi Potenze.
È un esito a lungo termine. In Africa, ad esempio, i contatti fra le culture hanno avuto luogo in un contesto di acculturazione per sostituzione, il che ha portato, qua e là, ad una de-culturazione pari a nessun’altra. Ora, dire de-culturazione significa dire a-moralizzazione criminogena, che è la causa lontana e soggiacente di crisi interminabili. Questa è la ragione per cui la cura attuale che non attacca che i sintomi politici, si può paragonare a chi cura le malattie dette “opportunistiche”, come nel caso dell’AIDS, senza cercare di attaccare direttamente la deficienza immunologica.
Dal punto di vista etico, il sistema immunologico è più o meno a terra su scala planetaria. Basti pensare alle famiglie sfasate dei Paesi Occidentali, con divorzi in tutte le salse e al disorientamento mentale dei bambini, che non sanno più a che santo votarsi. Da qui al banditismo e alla droga nella fase dell’adolescenza, non vi è che un passo. Chi può stupirsi in simili casi della confusione concettuale che ne risulta? Che ci si può aspettare da una massificazione dei giovani che hanno rapporti sociali senza contatti? Che avverrebbe se tutto questo, in certe reti, assumesse, una dimensione planetaria?
Il problema mondiale di fondo, a destra e a sinistra, non è dunque in primo luogo politico o economico. È prima di tutto assiologico, vale a dire legato al sistema dei valori che fanno sì che un uomo sia un uomo. Quest’uomo è a terra. La de-culturazioen radicale ha prodotto in molti ambienti naturali di vita un “vuoto assiologico”.
Un po’ ovunque nel mondo, siamo diventati come nuotatori profondamente ostacolati nella loro traversata e che cercano disperatamente dove aggrapparsi. Fino ad oggi, ci si aggrappa ciecamente al “Bianco”, senza però diventare per lui un partner reale. La “fama africana” attribuisce a Houphouet Boigny la frase seguente: “Dio è grande. Ma anche il Bianco è grande”. In altre parole, che lo vogliano o no, i “Neri” che pensano questo sono numerosi, con un desiderio ardente di aggrapparsi a quest’ultimo, per non affogare nel fiume del vuoto antropologico.
Ad ogni buon conto questo ha già messo radici.
Questo vuoto risulta dalla violenza concettuale attuata all’inizio, al tempo della colonizzazione. La medesima violenza si approfondisce oggi con la comunicazione audiovisiva quasi a senso unico, che sempre più produce un cittadino estraneo al suo proprio ambiente, poiché, dopo l’epistemologia coloniale e post-coloniale, legge il suo mondo soltanto con occhiali falsi. Cerca di conoscersi attraverso ciò che gli si dice che egli è. Non ha più voglia di saperlo da se stesso. Ha perso i suoi punti di ancoraggio. È diventato un uomo di paglia, una marionetta, cera molle a cui si può dare qualsiasi forma.
III. Conseguenza: sviluppo delle forze centrifughe “azimutali” in Africa
La passione, per esempio, ha abbandonato l’africano medio. È in un altrove sconosciuto. Questa è la ragione per cui fa di tutto per fuggire e andare verso un altrove ignoto. Conosce le insidie di questo altrove, però deve partire.
Ho visto a questo proposito un film molto eloquente, grazie alle sue immagini sorprendenti. Un giorno, alcuni predicatori avvertono la missione di muoversi per emigrare in Europa. Subito colonne di migranti si alzano da ogni parte. La parola d’ordine è: “l’Europa si è presa tutte le nostre risorse materiali e umane. Andiamo là a condividerle con gli Europei!”. Le colonne si sono spinte contro lo Stretto di Gibilterra il cui portico ha ceduto. Sono risalite in forze in Spagna, in direzione della Capitale dell’Europa: Bruxelles.
Nel frattempo il Parlamento Europeo si è riunito, senza osare di sparare sui suoi assalitori: “inermi”. Due correnti allora si sono divise l’emiciclo: la reazione muscolosa o lo sviluppo reale di questi popoli presso di loro. Quest’ultima corrente ha finito per prevalere. È stato votato un vero piano Marshall…
Questo è il dramma della deriva africana in parecchi posti. Come si può servire un continente annichilito antropologicamente e assiologicamente? Un continente in cui non ci sono che dei corpi, poiché il cuore è altrove? Quando l’ambiente rurale, divenuto opaco per le sue componenti, non attende luce che a partire dalla città; quando la città stessa, attende luce da un altrove decisamente e irrimediabilmente ignoto, la mondializzazione diventa un bulldozer morbido dagli esiti imprevedibili.
Avendo così smarrito i loro riferimenti, le masse africane si sono allora abituate ad obbedire senza capire, purché l’ordine venga dall’alto, dai capi del “noi” benedetto, anche se invita ad uccidere.
Questo è l’effetto della deportazione culturale che produce, da un secolo, cittadini frantumati e disillusi, che non amano che la sicurezza individuale e il profitto immediato. Tale è l’effetto di un genio creatore che è inaridito, lasciando il posto all’inerzia e al letargo: un vuoto che attende non importa che per essere colmato: una confusione tessuta nei cervelli e che intorpidisce i cuori.
Questa confusione rischia di approfondirsi con l’attuale comunicazione “azimutale”, che funziona sullo sfondo di vuoto assiologico in parecchi punti. Ad esempio si sta sviluppando un parlare caldo, pieno di un’affettività fortissima. Il rigore e la coerenza interni dei discorsi lascia sempre più posto alla risonanza fisica ed emozionale dei messaggi. Approfittando del vuoto assiologico si fa strada una logica sensoriale. In tal modo l’uomo è frammentato, vale a dire scoppiato.
Così i dibattiti, in certi forum, assomigliano ad alveari ronzanti, dove ciascuno anziché ragionare, risuona alla vibrazione dei messaggi. Il che rivela un’adolescenza collettiva, in cui la concentrazione rigorosa sui concetti diviene molto faticosa, a vantaggio di un certo avventurismo intellettuale e di un inquinamento pieno di rumori, assordanti nel senso acustico della parola. Non per niente la saggezza popolare ha inventato il proverbio: ”sono le botti più vuote che fanno più rumore”. Questo determina una grande frantumazione che a sua volta comporta una certa ipnosi della ragione a vantaggio della passione. In altre parole, un’esteriorizzazione troppo spinta della persona, provocando un addormentamento della vita interiore, non può che portare all’alienazione, vale a dire al fatto di essere estranei a se stessi e di essere comandati dall’esterno e da lontano. Tali sono gli effetti di una mondializzazione a senso unico, simile ad un bulldozer morbido.
In ogni modo se si guarda ai numeri questo fenomeno è allarmante, se non si prendono precauzioni serie.
IV. Il rimedio di domani è l’inter–culturazione
Per rimediare al marasma sopraindicato, bisogna mirare a formare delle rocce sulle quali le masse possano appoggiarsi nella confusione in corso; delle assi di rotazione attorno alle quali possano aver luogo evoluzioni migliori. Persone che non sono diposte a vendersi a chicchessia; giovani che vogliono seriamente preparare il futuro collettivo; non contando necessariamente sugli adulti, anch’essi in crisi. In altre parole, bisogna formare delle persone-risorse, dei leaders endogeni, capaci di essere poli referenziali e riferimenti viventi, in cui le masse possono vedere dei valori vissuti e cercare risolutamente un cammino concertato di esistenza, un progetto di società endogena.
La mondializzazione non può dunque riuscire che a condizione di formare delle persone che possano dire: “Se non obbedisco agli imperativi della mia coscienza e dell’interpersonalità senza frontiere, mi uccido”. Se non colmo il vuoto assiologico e il marasma concettuale ambientali, mi uccido. Se non obbedisco all’inter-culturazione, localmente ragionata e contestualizzata, mi uccido. Da qui l’importanza della triade “ri-acculturazione, inculturazione e inter-culturazione” perché la mondializzazione abbia buon esito.
La ri-acculturazione contestualizzata è la riappropriazione dei valori endogeni in un dato ambiente di vita per agire costantemente con tutto il cuore e la coscienza, obbedendo ad imperativi interiori e nello stesso tempo aperti alla interpersonalità e per avere così un’identità nel concerto delle nazioni. Quanto all’inculturazione, come detto sopra, questa ha luogo quando i dati estranei alla tradizione di un paese, penetrano e fecondano la cultura locale, trasformandola dal di dentro e lasciandosene trasformare al punto che sia possibile creare il nuovo sul tronco antico.
Nel caso specifico, questi dati devono essere in primo luogo i valori di base già omologati dalla comunità internazionale, per creare qualsiasi società accettabile e frequentabile nel concerto delle nazioni. A questo proposito, sottolineiamo il fatto che valori come i diritti umani, la democrazia, la buona governance, la tolleranza e la non-violenza, sono valori legati alla mondializzazione ma che meritano di essere inculturati per avere accesso duraturo nelle coscienze.
Tuttavia, questi valori non devono cadere negli spiriti come in un vuoto spalancato o come in una botte delle Danaidi, come accade ora. Bisogna dunque, precisamente, far precedere l’inculturazione dalla ri-acculturazione. Questa, come già detto, consiste nel fatto di riappropriarsi della propria cultura in vista di farne una chiave dello sviluppo, per utilizzare un’espressione dell’UNESCO. Per cultura, noi intendiamo, in primo luogo e anzitutto, il livello dei valori, vale a dire ciò che fa sì che un uomo sia un uomo.
Bisogna che i riferimenti viventi, che abbiamo già auspicato, possano avere l’opportunità di appropriarsi dei riferimenti concettuali locali e internazionali, per farsi un giudizio solido, in mezzo alla confusione ambientale; una capacità di discernimento di fronte all’attuale disturbo della comunicazione e della memoria. In questo caso, precisamente, la guarigione della memoria deve accompagnare la guarigione delle persone e dei gruppi.
Senza quest’opera di ri-assiologizzazione, la mondializzazione produrrà forse dei clienti potenziali, ma partners poco fidabili, senza bussola, senza punti di ancoraggio né di riferimento. Ora si tratta di navigare. In senso proprio sarà in mare e in aria; e in modo figurato attraverso internet! Il diventare partners, grazie alla mondializzazione ma in un simile contesto di sisma assiologico, non può dunque che essere un mercato di vittime.
Tuttavia, la ri-acculturazione e l’inculturazione non bastano più da sole. Se restassero confinate in se stesse, comporterebbero anche un difetto di fabbricazione: il fatto di prendere come punto di partenza dei dati estranei a una cultura e come punto d’arrivo la cultura locale. C’è invece il modo di completarli con l’inter-culturazione, cioè partire dalla ri-acculturazione, vale a dire dalla riappropriazione dell’essenziale dei valori che fanno sì che un uomo sia un uomo in una data cultura, per coniugarli con i valori omologati mondialmente, operando un’amalgama ragionato e contestualizzato delle diverse sorgenti di riferimento; per generare una società dove si ritrovino l’umano e l’interpersonale senza frontiere; dove si sposino il locale e il mondiale.
Quando parlo della ri-umanizzazione, non credo di esagerare. Basta fissare lo sguardo sulla violenza che esplode oggi negli stadi di calcio, per rendersi conto che massificazione significa, sempre più, reificazione, ridurre cioè le persone umane a cose. Basta anche osservare l’appetito sempre più acuto di accaparrarsi i beni dei più deboli, addomesticandoli culturalmente e assiologicamente. Basta infine aprire gli occhi sulla rabbia di uccidere, suicidandosi se necessario, che si sta diffondendo nel mondo come una marea di combustibile versato da navi rabbiosamente e ostinatamente folli.
Insomma, per essere utile alla mondializzazione, l’inter-culturazione deve far attenzione il più possibile alla dimensione spirituale e comunitaria della persona umana: una volta posta nel cuore della mondializzazione, essa può servire di antidoto contro una globalizzazione organizzata sullo sfondo di un individualismo primario e volgare, capace soltanto di aiutare il più forte a fagocitare il più debole; e fare in modo che lo sfortunato perda la bussola e decida di rifugiarsi presso il più forte. In questo contesto, le migrazioni clandestine, come detto sopra, non possono che aumentano, magari con imbarcazioni di fortuna se necessario.
V. Solo un’inter-culturazione che porta alla ri-umanizzazione può produrre buoni frutti
Tenuto conto di tutto questo, perché la mondializzazione abbia buon esito, bisogna radicalmente rivolgersi anzitutto all’essere umano in quanto tale; e a tutto l’essere umano, soprattutto in tutto quello che ha di sacro, anziché fondarsi solamente sullo scambio di cose, come oggi è purtroppo il caso nelle regole del commercio mondiale. Questa semantica riduttiva, spinta all’estremo, non può d’altra parte che generare una cosificazione delle persone, con tutte le conseguenze di violenza concettuale, verbale e fisica.
Se, al contrairo, la persona umana viene presa sul serio nella mondializzazione, le culture dei popoli e anche quelle dei più deboli saranno tenute in conto. Lo sottolineo: le culture dei più deboli! E in questa presa in conto, la cultura deve essere in prima linea. La cultura, per la precisione, è ciò attraverso cui l’uomo diventa uomo. Senza metterla in primo piano, senza mettere ad esempio la cultura dei più deboli nel commercio mondiale, la globalizzazione economica non sfocierà che nei massacri degli innocenti; non sarà che un mostro che svuota i poveri della loro anima; un bulldozer morbido che strappa le radici dei popoli.
Questo, come detto sopra, non produrrà tra i poveri che uomini di paglia, per i quali un contratto d’affari o d’altro, non sarà che un pezzo di carta, che aggira allegramente l’etica del commercio mondiale. Non si scherza con la de-culturazione.
Invece, soltanto l’inter-culturazione contestualizzata, come l’abbiamo definita sopra, può fondare la mondializzazione su buone basi. Chi concepisce la mondializzazione custodendo lo spirito per cui l’uomo non diventa uomo che attraverso la cultura, si deciderà a promuovere la cultura dei più deboli su scala planetaria in un clima di convergenza mondiale e di complementarietà attiva. L’economia globalizzata dunque non avrà successo che nel mettersi al servizio dell’uomo e delle sue culture, riconosciute come ciò attraverso cui l’uomo diventa uomo. Per questa via, l’internazionale cittadina stabilirà i punti base e darà inizio ad una discendenza, grazie all’inter-culturazione contestualizzata che ne sarà la via obbligata.
Invece, se l’essere umano viene ridotto ad individuo, cioè materia dotata di quantità (materia signata quantitate), non sarà cittadino del mondo, soggetto di diritti e di doveri, compresi e assunti. Sarà piuttosto una cosa (res) in più delle cose da vendere e da comprare: una cosa al servizio di altre cose, erette ad idoli, con alla base un pensiero unico. I beni della terra non apparterranno all’uomo, ma è lui che apparterrà loro, con tutta la soggezione voluta; con tutta la schiavitù che ne conseguirà.
E allora la mondializzazione può anche essere lo zoccolo della schiavitù post-moderna, provocando in seguito rivendicazioni identitarie, tentacolari e interminabili, accompagnate da forme di violenza ancora più identitarie che paralizzerebbero gli scambi mondiali. Non si fa impunemente della semantica riduttiva soprattutto quanto il riduttivismo svuota l’essenziale dal punto di vista antropologico ed assiologico.
E ancora, non si può salvare la terra che salvando l’uomo. E non si salva l’uomo che salvandone la cultura. Con questo, non si può commerciare in maniera sana su scala planetaria che dilatando gli spiriti e i cuori, per stabilire i punti base di una famiglia senza frontiere, precisamente grazie all’inculturazione contestualizzata.
Occorre dunque, a questo scopo, un nuovo patto. Dopo la Seconda guerra Mondiale, ha avuto luogo un patto. Questo ha permesso all’attuale insistenza sulla civiltà dei diritti umani di prender piede. Questo patto oggi è svilito da coloro che dovrebbero metterlo in pratica.
Oggi occorre in ogni modo un patto nuovo, che sottolinei i doveri dell’uomo, obbligandolo a tenere insieme – costantemente – spiritualità, solidarietà e corresponsabilità su scala locale e allo stesso tempo su scala planetaria, come deve essere in ogni corpo organico, considerato seriamente.
L’etica della responsabilità integrale e globale, deve dunque presiedere alla mondializzazione passando per l’inter-culturazione contestualizzata, soprattutto a livello dei valori. Fino ad oggi infatti l’Occidente non si è mai preoccupato di capire i valori posti alla base dei costumi africani, che sono rimasti per lui oscuri. Da cui è derivato un malinteso enorme: la famosa confusione concettuale sopra delineata.
Se dunque nell’inter-culturazione contestualizzata non si mira in primo luogo al livello dei valori, gli scambi nel campo dell’espressione e degli strumenti culturali non saranno che folklore per divertire la platea e aggiungere piacere a piacere tra i popoli sazi, affamando sempre più quelli più affamati.
Come pure se il livello dei valori non fosse raggiunto nell’inculturazione auspicata, alle istituzioni dei deboli non resterebbe che tollerare di far ingoiare serpenti, e di lasciarsi spogliare, con il sorriso sulle labbra, tra nutriti applausi e fanfare.
Conclusione
C’è bisogno di tempo perché questo possa realizzarsi. È il minimo. Ad ogni modo, il tempo distrugge tutto ciò che si fa senza di esso. Bisogna immaginare piuttosto, ad esempio, che i paesi africani sono paragonabili alle rane dell’Allegoria. Queste sono cadute in un enorme recipiente di latte. E allora, anziché scoraggiarsi e annegarsi, decidono di dibattersi quanto più è possibile. E più si dibattono, più riescono a battere il latte.
Ora, quando il latte viene sottoposto a quest’esercizio, produce progressivamente del burro. È ciò che è accaduto: si è prodotto un bel pane di burro. E le rane vi sono salite sopra, tenendo la testa alta, e sono uscite dal recipiente ancor più rinvigorite. È il lavoro della ri-acculturazione, definita sopra come premessa all’inter-culturazione. Questa non si acquisirà che a condizione di cominciare a dibattersi più di sempre nel famoso latte.
Precisamente, i paesi africani, per la maggior parte, non sono caduti nell’acido, ma nel latte. Hanno dei valori che per il momento purtroppo covano sotto la cenere, se non saranno inghiottiti sotto i cocci. Bisogna dunque dissotterrarli e rinvigorirli. Questo è opera della ri-acculturazione e della ri-assologizzazione di cui non si può sottolineare abbastanza l’importanza.
Inoltre, per loro, l’apertura alla inter-culturalità senza frontiere è già acquisita. Si tratta di formarli a scegliere e a navigare per arrivare al porto sicuro, in un clima fatto insieme di inculturazione e d’inter-culturazione contestualizzata.
Questo è il lavoro che si è proposto di fare il Centro di Ricerche per l’Inculturazione e lo Sviluppo (CRID) che l’autore di queste righe ha avuto la gioia di iniziare e di dirigere. Ha già pubblicato molto sulla materia. Tuttavia il terreno è pieno di insidie. Il CRID sarebbe pertanto ben lieto se altri servizi e organismi del genere potessero collaborare per raggiungere insieme dei risultati tangibili e diffusibili.
Ad ogni modo, il futuro è di coloro che cercano e lottano sul terreno assiologico su scala planetaria, creando all’inizio delle “élites” in questo senso.
Quando parlo di élites, non intendo dei dignitari. Intendo persone-risorse, poli referenziali, riferimenti viventi a qualsiasi condizione sociale appartengano.
II Incontro continentale africano
VOI SARETE MIEI TESTIMONI IN AFRICA. Realtà sfide e prospettive per la formazione di fedeli laici. Il contributo dell’Azione Cattolica/2 – Bujumbura, 21-25 agosto 2002
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